Tana delle Tigri

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di Pasquale “Pas” De Filippo

In Monster & Co, i personaggi imparavano che un consolidato metodo per generare energia, basato su aggressività e cattiveria, poteva essere soppiantato da un nuovo sistema in grado di produrne dieci volte di più, sfruttando simpatia e collaborazione. Certo è fantasia ma la morale è importante.

La consuetudine ci chiude nella sicurezza del non sbagliare mai (“per anni ha sempre funzionato bene così”), limita di fatto la scoperta di approcci diversi che, tenendo conto dei mutati fattori ambientali, possono, magari, sortire risultati più efficaci.

L’allenamento di una squadra di football evoca in alcuni sessioni di addestramento stile generale Hartman oppure “Tana delle Tigri”. Senza arrivare agli estremi possiamo dire che il modello è quello della dittatura disciplinare votata al raggiungimento delle perfezione che seguita senza far troppe domande, pur patendo, porterà all’Olimpo, grati all’addestratore nonostante le angherie subite.

Il clique è ormai assodato, consolidato e negli anni passati era forse ancor più accentuato. I ragazzini dell’80 hanno goduto di esempi epici improntati sulla vittoria al grido di: “No Pain, No Gain”. I modelli erano nei film di Rocky che ci insegnava che allenarsi nella neve e ghiaccio porta più vantaggi che lavorare in una palestra super accessoriata.

Era la chiave motivazionale di quel tempo: la vita era dura e se volevi successi dovevi soffrire.

I tempi sono passati ed i nuovi giovani sanno che preservarsi è la cosa più importante; grazie alla cultura, oggi, scelgono i cento giorni da pecora manager piuttosto che il singolo giorno da lupo fiero ma schiacciato dalle fatiche. Fare breccia nella loro motivazione, in questa era dove palpeggiando un telefono trovi tutte le risposte del mondo, è dunque molto più complicato.

Alcuni allenatori, anacronisticamente, sono saldi a quell’immagine di patimento fisco e coercizione psicologica quale unica via per il successo e motivazione, pertanto, come nell’Agoge di Sparta, se uno non è all’altezza deve perire (più semplicemente è meglio che smetta di giocare a football).

La MOTIVAZIONE GIOVANILE è oggi, più di ieri, materia complessa che non è solo da studiare sui libri ma da sperimentare sul campo e negli spogliatoi; alcuni coach ritengono che tutte quelle nozioni di psicologia siano superflue, lunghe ed inapplicabili pertanto desiderano andare al sodo: “non farmi tutta la pappardella psicologica, dimmi le quattro cose che mi servono e le applico”. Scelgono, dunque, di evitare il confronto con professionisti, replicando esperienze già vissute, prendendole per graniticamente esatte in quanto han sempre funzionato: un approccio semplicistico votato al non mettersi in discussione.

I metodi più in voga sono certamente:

L’Asino

L’atleta è un essere vuoto di esperienza, dispone dei mezzi fisici, certo, ma è incompetente, da plasmare…e la trasmissione della conoscenza passa per la durezza di trattamento. Si somministrano bastoni e carote (nella fattispecie imbarazzi o esultanze da branco), sapientemente dosate; esecuzione e basta, perché il coach sa (a prescindere) e l’atleta non potrebbe capire cotanta sapienza quindi se vuol essere al pari degli altri deve solo eseguire!

La Cicogna

Il giovane è un foglio bianco, lui potrebbe fare ma non sa. A questo punto il coach diventa lo scrittore, il mentore, l’esempio da emulare, nella sport e nella vita; il detentore del sicuro-sapere che possiede il fardello della conoscenza e lo consegna ai propri atleti così come la cicogna porta il fagotto con il bimbo che viene offerto ai genitori. Per ottenere questo scopo organizza sessioni autocelebranti che sintetizzano il concetto: “facendo come vi dico, arriverete dove sono io ora. Fate! Senza troppe domande”. Questi coach ritengono doveroso influenzare anche le scelte extra sportive come la scuola da seguire, la fidanzata o lo stile di vita.

La Pseudo Selezione Naturale

William Warren nel suo libro “Coaching & Motivation” del 1983 (e non l’omonimo del 2002) ci illumina concludendo che siccome è difficile motivare tutti i giocatori … “circondatevi di atleti che la pensano come voi, che si interessano a voi, al vostro programma ed ai compagni di squadra. Se questo implica l’eliminazione degli atleti, bene, non è una prospettiva piacevole, ma può essere necessaria alla vostra salute mentale ed al rendimento della squadra”. Chi non si allinea, può andare.

Atteggiamenti diversi, accomunati dalla focalizzazione sull’allenatore.

Quindi l’atleta non è motivato quando si oppone al coach.

Ogni ragazzo viene rapito da uno dei tanti aspetti del poliedrico football (spettacolo, atletica, guasconeria, discussione di sé …), è dunque difficile capire il perché venga agli allenamenti (magari pur non ottenendo grandi risultati) ma certamente possiamo concludere che chi si presenta ad ogni sessione, in qualsiasi condizione, è assolutamente MOTIVATO. L’opposizione, per cui, non è alla disciplina ma ai rigidi schemi del coach ed alla mancante comprensione del “perché” si debba fare in un modo piuttosto che nell’altro.

L’obiettivo non dovrebbe essere quello di costruire una motivazione bensì di non distruggerla.

La più grossa paura di chi allena, è quella di perdere il controllo della squadra, credendo così di sembrare incapace, fragile, debole, inabile al ruolo, perdendo posizioni di potere davanti agli atleti. Ossessionato quindi dalla qualità della performance, si concentra sul cosa far fare, tralasciando il divertimento. Una buona motivazione passa senza dubbio per questo stato di grazia; scoprire cosa della nostra disciplina diverte l’atleta può aiutarci a consolidare la sua motivazione. Dobbiamo dunque parlare con questi ragazzi, comprendere quali siano le loro mete, i loro bisogni, la percezione del mondo che hanno e la situazione in cui vivono. In pratica ci si deve perdere tempo.

Ecco però gli alibi: “il fattore tempo è una risorsa esigua e si è quindi costretti ad effettuare una selezione di chi è motivato alla vittoria; per non parlare poi della questione sicurezza, mettere in campo un atleta non al livello degli altri potrebbe arrecare rischi”. Grandi scuse che molti allenatori hanno già risolto, basterebbe, umilmente, accoglierne consigli.

La domanda da porsi dunque è:

c’è spazio nella vostra squadra per atleti che vogliono divertirsi o solo per quelli motivati alla vittoria?

La risposta ovviamente se la dà a se stesso ogni coach senza che gli si debba porre vincoli o precetti; possiamo però iniziare a riflettere a nuovi punti di osservazione di quella che è la formazione dell’atleta.

Da studi fatti sulla psicologia sociale, sappiamo oggi che negare agli individui il diritto di controllare la propria vita in un determinato ambito, genera una distruzione della motivazione con conseguente interruzione del miglioramento, incapacità ad accollarsi responsabilità e degrado dell’autostima. Analisi presso le case di riposo han rilevato che quando l’anziano ospite percepisce di aver perduto il controllo sulle sue decisioni, inizia a manifestare concreti problemi di salute fisica e psichica; mentre negli anni dello sviluppo, si generano stati negativi come ansia e poca propensione a migliorarsi. Offrire invece opportunità di controllo produce sviluppo ed incremento delle qualità sopraccitate.

Gli attuali giovani hanno pieno controllo di molte situazioni proprio grazie ai diversi sistemi tecnologici esistenti. Al campo dunque assistiamo ad allenatori che perdono la maggior parte del tempo a mantenere ordine e disciplina, frustrandosi, perché gli atleti resistono al sentirsi pedine mosse da altri. Non è raro vedere giocatori essere indisciplinati durante la parte formativa e diventare diligenti nel momento di gioco.

Una visione dell’allenamento orientata a consegnare agli atleti il controllo della loro formazione, potrebbe dunque svelare risultati nuovi ed inaspettati. Utilizzare un metodo, oggi, del tutto opposto a quanto da sempre proclamato ieri.

Su questo argomento i pareri si dividono: la paura del coach è sempre quella di sembrare inadeguato ma la realtà è che un allenatore sa certamente come allenare, dovrebbe soltanto stimolare i propri atleti a sviluppare un proprio programma di allenamento, supportandoli e trasmettendogli le basi. Tanti sono i coach illuminati, tuttavia i più tradizionalisti pongono come metodo efficace per imparare ad ottenere il controllo di loro stessi proprio la vittoria: “Se gli mostrerò come vincere, impareranno ad avere il controllo delle situazioni”; purtroppo questa locuzione si è smentita troppe volte, vedendo campioni dello sport essere perdenti nella vita perché non hanno mai imparato ad assumersi le responsabilità derivanti da quel successo: non ne sapevano avere il controllo.

Un approccio nuovo è già iniziato: Mark Helfrich ed il suo coaching staff ad Oregon hanno scelto di allenare senza più urlare verso i ragazzi e Tom Pack con Jack Neumeier, a Fallbrook, San Diego, hanno introdotto un organizzazione di gioco che permette agli atleti, durante la partita, di crearsi lo schema senza playbook preconfezionati. Allenare portando il focus sui singoli atleti prima che su tutto il team; una visione olistica della squadra dove il tutto è migliore della somma dei singoli.

Si tratta solo di punti di vista, una volta si allenava pensando: “…gli farò fare questo”, oggi ragioniamo secondo: “…gli farò venir voglia di fare questo”…nel futuro potremmo arrivare a:

“…lo renderò responsabile affinché possa esser in grado di fare questo”

 

PAS

Nella Foto: Pasquale De Filippo

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